Il bambino di Noè

È il 1942.

Siamo a Bruxelles, in compagnia del piccolo Joseph.

Ha appena sette anni, ma lui sa di essere prezioso e unico.

Accanto alla sua cara mamma, dal profumo zuccherino, lui si sente un re e, da come l’ha accolto la contessa di Sully, da cui è stato condotto, in un modo – per dire la verità – inaspettato e affannoso, gli verrebbe da pensare che la sua ipotesi sia giusta.

Forse tutto dipende da quella stella gialla, che da poco suo padre gli ha cucito sugli abiti.

È stato un lavoro di grande abilità, il suo: la si può, infatti, far comparire e scomparire – come in un gioco di prestigio – a seconda delle necessità.

Benché sia un bambino inesperto, Joseph si sta accorgendo che quel simbolo lo rende tanto caro a certe persone, tanto odioso ad altre.

Adesso, ad esempio, a causa di quel segno, si deve separare dai suoi genitori e, ben presto, anche il favoloso palazzo della contessa, col suo numero infinito di stanze, non basterà più a proteggerlo.

Una mattina, infatti, a seguito di una denuncia, è arrivata la polizia, che ha circondato la casa e fatto una perquisizione.

La contessa, con astuzia tutta femminile, invece di sbarrare le porte, di cercare di nasconderlo,  ha fatto entrare i poliziotti e li ha sfidati.

Ha detto che Joseph è suo nipote, figlio del generale von Grebels e poi li ha invitati a frugare, sondare i muri, sfasciare i bauli, sollevare i letti.

Alla fine non hanno trovato nulla e, impacciati, porgendo le loro scuse, i gendarmi se ne sono andati.

Dopo quell’episodio così drammatico, il conte e la contessa si rivolgono a padre Pons, perché trovi al bambino un rifugio più sicuro.

Questi è una persona dal carattere gioviale, con cui è facile stringere amicizia e gradevole stare.

Di mestiere fa il prete cattolico e il collezionista.

Sì, cari amici, collezionista di culture, alfabeti, lingue, oggetti sacri e profani e, in alcune occasioni, come questa, di vite, destinate a essere cancellate nelle periodiche epidemie di follia che colpiscono il genere umano.

Novello Noè, con infinita pazienza, raccoglie e salva tutto ciò che riguarda un popolo della Terra che subisce una minaccia.

Joseph lo segue.

Diventa suo insegnante di ebraico e suo allievo di vita.

Scopre, con il passare degli anni, che allora era toccato agli ebrei, poi era stata la volta degli Indiani d’America, dei Vietnamiti, dei monaci tibetani.

L’opera silenziosa e solerte di padre Pons diventa nota, suo malgrado, all’opinione pubblica e ha una tale risonanza, che, alla sua morte, gli viene dedicato un albero nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme

Joseph, in visita alla città santa, vuole vederlo.

Mentre percorre le strade, in compagnia di Rudy, suo amico del cuore – che ha vissuto assieme a lui gli anni della persecuzione sotto la protezione di padre Pons – s’imbatte in un litigio tra due gruppi rivali, uno di ragazzi ebrei, l’altro di ragazzi palestinesi, risolto a colpi di pietra.

Rudy, che vive a Gerusalemme da anni per sua scelta, reagisce con l’indifferenza di chi ne ha viste troppe.

Joseph, invece, decide di continuare l’opera di padre Pons o del patriarca Noè – non serve saperlo.

Per terra sono rimasti degli oggetti perduti dai ragazzi.

Raccatta una kippà a una kefiah.

Li infila una nella tasca destra, l’altra nella sinistra.

È l’inizio di una nuova collezione.

Sì, perché, a quanto pare, non sempre la storia è maestra di vita

ERIC – EMMANUEL SCHMITT, Il bambino di Noè, ed. BUR 2004

Ringrazio la mia carissima amica Antonella De

Benedetti per avermi segnalato il libro :-D

©Daniela Mazzon Systema

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