Incontro con la scrittrice Annabella Cabiati

Foto di Edoardo Varotto © Daniela Mazzon Systema

Arrivo in lieve anticipo.

Uno squillo di campanello e la porta è già aperta.

Annabella mi sta aspettando e mi accoglie, come sempre, con affetto e generosità.

Anche il gatto Oscar si fa avanti.

In fin dei conti, il vero padrone di casa è lui.

Quando valuta di aver ricevuto la dose di coccole e attenzioni dovutagli per il suo ruolo essenziale in famiglia, nella società umana e felina  e nell’intero universo, ritorna nella sua cesta.

Sul tavolo del salotto vedo numerosi volumi di storia e civiltà romana, libri d’arte, guide turistiche.

Annabella sta lavorando a un nuovo romanzo ambientato a Pompei e, di recente, è andata a fare un sopralluogo del sito archeologico, per controllare di persona alcuni particolari.

La vicenda si svolge dal 16 ottobre del 78 al 24 agosto del 79, giorno della tragica eruzione.

Attorno all’intreccio da lei creata, la scrittrice ha ricostruito, con attenzione e cura filologica, la città e la società del tempo.

Discutiamo assieme sulla traduzione di una massima di Seneca, per renderla più efficace e non perdere nulla del messaggio originale.

Omnia humana brevia et caduca sunt et infiniti temporis nullam partem occupant.

Mi sembra una scelta adattissima per commentare lo scenario apocalittico con cui si conclude l’opera.

Annabella mi fa leggere la prefazione e mi dà il permesso di condividerla con voi, per cui eccola in anteprima.

‘Sullo sfondo di una Pompei rutilante di vita e di commerci, molti destini, già segnati dal fato, stanno andando a compimento e gli dèi, indifferenti agli amori, agli odi e alle molte passioni dei suoi abitanti, hanno innescato un meccanismo distruttivo, che, occultato sotto l’apparenza bonaria di un cono verdeggiante, il Vesuvio, sta per travolgere tutto e tutti, in una catastrofe ambientale senza precedenti.

Le avvisaglie della tragedia imminente si manifestano sotto forma di frequenti scosse di terremoto, ma i Pompeiani, gente spregiudicata e pragmatica, tutti presi a perseguire i loro piccoli e grandi intrighi quotidiani, sembrano volerli ignorare fino a quel fatale agosto del 79 d. C., in cui si spalancano le bocche dell’inferno e la morte, vestita di rosso, scende a compiere la sua azione devastatrice.

In meno di un minuto l’onda bollente al calore bianco uccide più di duemila persone, asserragliate nelle loro case, per sfuggire alla pioggia di cenere e lapilli, che, da venti ore, bombarda la città, strangolandola sotto un sudario mortifero: è l’anno 833 ab urbe condita’.

Questo è dunque ciò che Annabella ha in cantiere, ma io sono qua per chiederle di un altro romanzo storico, pubblicato lo scorso anno: L’ultima strega della Val di Non.

‘Ho dovuto scrivere quel libro’ dice Annabella.‘Quando  ho visitato i luoghi in cui si è svolta la vicenda, mi è sembrato quasi di udire delle voci che mi chiedevano di parlare di queste vittime innocenti dell’ignoranza e della malvagità’.

Anche in questo caso, per presentare l’opera, mi servo delle parole dell’autrice stessa.

Eccovi la prefazione del romanzo, in cui c’è la precisa collocazione cronologica e topografica del fatto.

‘Tra il 1614 e il 1615 dieci persone, sette donne e tre uomini, sulla base di accuse inventate e prive di senso furono strangolate e poi bruciate a Coredo sui roghi allestiti nella piazzetta antistante il Palazzo Nero e altre diciannove furono condannate a pene pecuniarie o corporali. Questo fu il tragico epilogo di un lungo e straordinario processo per stregoneria, istruito in terra d’Anaunia nel 1611 per ordine del governo Vescovile di Trento’.

Così esordisce Claudia Bertolini nella prefazione del suo libro che ricostruisce, sulla base di un’attenta e difficile lettura degli atti processuali, l’intricata vicenda che si svolse in Val di Non e che vide coinvolta l’intera popolazione di quel vasto altipiano, possedimento imperiale dal 1027, governato e amministrato dal Vescovo-Principe di Trento che, nel periodo in esame, era Carlo Gaudenzio Madruzzo.

La vallata, oggi coltivata ovunque a meleti e vigneti, era allora ricoperta da un manto boschivo fittissimo, con una scarsa porzione di prato adibito a culture agricole di sussistenza, che, a stento, garantivano rendite alimentari sufficienti a mantenere i locali.

Miseria, dunque, e tasse pesavano sulla popolazione che doveva mantenere i nobili e il clero, esenti dai prelievi fiscali. È in questo il contesto di povertà, di paura e di ignoranza che si alimentano superstizioni, pratiche magiche e fantasie, retaggio di antiche credenze tramandate fin dall’antichità, di generazione in generazione. E che trovano la loro espressione concreta nella figura della strega: una donna generalmente non più giovane, spesso una vedova, magari in difficoltà economiche, che pratica talvolta l’attività di erbaiola e di guaritrice, un po’ per tradizione e un po’ per sostentarsi.

È facile farla diventare il capro espiatorio della paura e dei malumori, delle frustrazioni della popolazione, convogliando su di lei l’attenzione del popolino, bisognoso, al contempo, dell’aiuto della magia, unica difesa contro le sventure quotidiane e le angherie dei potenti, ma timoroso delle conseguenze di quelle arti, che la Chiesa, con molta fatica e grande crudeltà, tentava di cancellare dalla memoria collettiva. È facile scaricare su qualcuno il mal d’essere e l’eterna sofferenza del vivere, che colpisce l’uomo in ogni secolo della sua esistenza, dall’antichità più remota ai giorni nostri.

Ecco allora attribuire, alla malcapitata di turno, connivenze sataniche, parti demoniaci, sabba malefici consumati sulla cima del monte Roen.

E i notabili e, soprattutto, gli ecclesiastici, che, oltre al potere avrebbero dovuto detenere anche la cultura e la saggezza, eccoli sobillare le menti, inasprire i rapporti sociali, creare un clima di sospetti e di delazioni, fino a ‘far sentire’ ai valligiani l’esigenza di autentici bagni di sangue, trasformando povere donne sole ad emarginate in veri e propri agnelli sacrificali’.

La scrittrice ha studiato e ricercato molto per scrivere questa sua opera.

Si è servita del manoscritto 618, conservato nella Biblioteca civica di Trento, in cui sono conservati gli atti del processo, è andata sul posto diverse volte, per visitare gli edifici in cui le vittime di questa follia furono incarcerate, interrogate, torturate, uccise e bruciate.

Questo non ha però mortificato la sua vena creativa, per cui il romanzo interessa, attrae, incanta.

Vi offro altre due pagine, perché abbiate un’idea più completa di come Annabella abbia intrecciato al rigore della ricerca storica spunti fantasiosi e fantastici di grande suggestione.

Leggiamo dunque assieme qualcosa dal primo capitolo.

‘Ad Altea piaceva enormemente la neve che aveva qualcosa di fiabesco e non c’era per lei niente di più bello che starsene con il naso all’insù ad attendere che i cristalli di ghiaccio le si posassero sul viso, sulle palpebre, sulle labbra, sfiorandole con la loro gelida carezza.

E fu così che, mentre camminava arrancando sulla ripida salita, con lo sguardo rivolto verso il cielo, non vide l’ostacolo posto davanti ai suoi piedi e…inciampò…cadde in avanti…poi cominciò a scivolare…e scivolò a lungo, terminando la sua caduta alcuni metri all’interno del bosco, fermandosi in un anfratto ricoperto di morbido muschio, che attutì di molto l’impatto con il terreno. Restò lì intontita per qualche istante, valutando i danni, contenta di non essersi fatta niente di male…quando un’ondata improvvisa di terrore la pervase, di sé circondandola, come un’orrida spirale e, ancora prima di vedere con gli occhi, ‘vide’ con gli occhi della mente ciò che le si parava d’innanzi. Si sentì come avvolgere da una ragnatela di folle paura e le sembrò che l’aria le sfuggisse dai polmoni e, mentre boccheggiava spasmodicamente, prese coscienza di ciò che c’era davanti a lei. Sembrò che il buio si muovesse gonfiandosi a dismisura: qualcosa di nero la sovrastava e due enormi occhi gialli fosforescenti la fissavano immobili, come volessero ipnotizzarla. Percepì un odore greve, che non sapeva se appartenesse alla ‘creatura’ o emanasse dal suo corpo ricoperto di gelido sudore, e una vibrazione appena percettibile, che le feriva i timpani, facendoglieli dolere dolorosamente. Il cuore le era balzato in gola e si contraeva a ritmo forsennato e capì che stava per morire, perché un’onda di malvagità le stava risucchiando ogni energia vitale, come se le sue vene venissero svuotate dal sangue che vi scorreva. E già tutto si stava appannando davanti ai suoi occhi, quando, da recessi siderali, le giunse la voce di Artemisia, che invocava il suo nome.

Il suono squarciò la notte e vibrò ripetuto dall’eco.

Si udì possente, o almeno così le parve, e galleggiò fino a lei, che stava morendo…La creatura fremette e un gorgoglio torbido, quasi un ruggito, emanò dai recessi del suo essere. Gli occhi lampeggiarono e persero il loro potere ipnotico. La vide contrarsi con un gemito ancestrale e trasformarsi in una massa fluida e allungata. Poi si dileguò come un’ombra e con essa sparirono anche l’odore pungente che emanava, risucchiato nel gorgo profondo dal suo rapido svanire…

Un attimo dopo il bosco tornò a popolarsi e presenze vitali si sostituirono al silenzio, come una musica benefica, e Altea si ritrovò singhiozzante nell’abbraccio salvifico di suo nonna, che la tempestava di baci e carezze’.

Cari amici, a questo punto Annabella, il gatto Oscar e io vi salutiamo.

Non vorremmo disturbarvi, mentre nel bosco splendido e inquietante della Val di Non fate amicizia con alcune delle protagoniste della vicenda.

Daniela Mazzon.

© Daniela Mazzon Systema

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